La campagna Dove, la reazione sui social (…e la lezione che tutti possiamo imparare)

campagna dove fail

I social media, si sa, fungono da cassa di risonanza per messaggi di varia natura. Certe volte in maniera involuta, distorcendo completamente i messaggi per come erano stati inizialmente pensati.

Alle volte capita di condividere con rapidità, spesso senza approfondimento, le notizie che risuonano con le nostre credenze personali, i nostri stati d’animo, le nostre paure e desideri.

Da giorni si parla del caso Dove come dell’ennesimo Epic Fail e di come è possibile distruggere un brand con una campagna pubblicitaria sbagliata.

In breve: lo spot incriminato reclamizza un sapone di bellezza. Si vede una donna di colore che, dopo aver levato la maglia che indossa, diventa improvvisamente una ragazza dalla pelle chiara.

dove ad

Facilissimo gridare allo scandalo ed essere giustizialisti nei confronti della campagna e della scellerata azienda che ne ha deciso la creazione e pubblicazione.

Facile strabuzzare gli occhi vedendo questi due fermi immagine, un effetto da “prima e dopo la cura” che non lascia spazio a fantasia.

Eppure la verità non è quella che ci è stata presentata dalla gran parte dei quotidiani, i social influencer e dai nostri contatti Facebook.

Ma cominciamo da principio.

Il video della Dove non è un video razzista

Da anni Dove si occupa di parlare alle donne attraverso varie campagne di comunicazione, con un obiettivo non sempre raggiunto: il messaggio deve raggiungere il genere femminile rispettando meccanismi di inclusività di razza, ideologia e corporatura.
Che il video non sia nato con lo scopo di utilizzare cliché da medioevo non può che essere chiaro.
Riuscite a immaginare dei meeting tra manager, account, creativi dove lo spettro del razzismo non sia mai stato contestato e che questa pubblicità sia venuta fuori con così tanto candore?

La risposta è no. O è quantomeno fortemente improbabile.

L’attrice protagonista di questo video ha preso parola, tramite un’intervista rilasciata al The Guardian, con parole che mostrano esemplare intelligenza emotiva e che richiamano a quello che tutti dovremmo sempre fare: andare oltre, contestualizzare, approfondire.

Lola Oguniemy, questo il nome della ragazza, spiega come l’idea di questo video l’avesse riempita di entusiasmo.

In un contesto in cui lei riconosce benissimo come il razzismo la faccia da padrone – cita una frase che le ripetono sin da giovane “Sei bella… Per essere una donna di colore”- l’idea di un prodotto di bellezza, di un sapone che renda belle tutte a prescindere dal colore della pelle, le sembra un’idea eccezionale.

E questo clima di entusiasmo rimane durante le riprese e dopo che il video di 30 secondi è stato montato.

Sette modelle di differente età e razza che si trasformano le une nelle altre e che rispondono tutte alla stessa domanda “Se la tua pelle fosse un’etichetta con le istruzioni per il lavaggio. Cosa direbbe?”. Un video dalla trama circolare dove le 7 ragazze compaiono esprimendo la propria peculiare fisicità: Lola Oguniemy è presente sia all’inizio che alla fine del video.

Il suo entusiasmo, come detto, è alle stelle. E persino dopo che la versione ridotta per il web a 13 secondi viene rivista da lei e la famiglia, c’è l’idea di aver fatto qualcosa di una bellezza che va al di là del fattore commerciale.

Eppure qualche giorno dopo, cercando su Google le parole “Pubblicità Razzista” (racist ad in inglese) la prima immagine a comparire è proprio quella di Lola.

Cosa è andato storto?

Da vittime della perdita di contesto a carnefici della Dove

La riduzione video di 13 secondi mostra solo 3 delle 7 donne in sequenza: Lola, una ragazza bionda e un’altra asiatica.
In qualche modo il contenuto ha già perso una parte della sua potenza comunicativa.

Peggio ancora: il video viene presentato sugli account social della Dove con dei singoli fotogrammi “teaser”.

Dove-Racism

Il messaggio diviene improvvisamente polarizzato sui primi fotogrammi e su quel cambio di maglia da nero a bianco su cui (solo) una parte dell’audience si concentra.

In molti non vedono ancora il male, ma una parte sì. Ed è una parte che fa molto rumore.

Il messaggio d’inclusione si trasforma in un “prima e dopo la cura” e comincia a fare il giro della rete.

Chi fa rumore copre gli altri e la Dove si ritrova a rimuovere il contenuto incriminato e a chiedere scusa per un messaggio che non voleva essere razzista, ma, suo malgrado, lo è diventato.

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Una buona parte di chi l’ha condiviso ha peccato di superficialità

Proprio a quel punto, dopo la sua rimozione,  il messaggio ha ricevuto una spinta extra al suo potenziale di viralità negativa.

La gran parte della gente che ha ricondiviso l’immagine fissa, e gli articoli (parziali anch’essi e con scarso approfondimento) che da quel momento sono stati pubblicati con estrema velocità, l’ha fatto con riferimento a quei fotogrammi messi insieme.

Quasi nessuno ha avuto l’accortezza di guardare per intero quel video.

Il contesto oramai è del tutto perduto, e per lo stesso principio o meccanismo per cui capita di condividere articoli semplicemente leggendone i titoli, il messaggio è stato ricondiviso in maniera parziale.

 

Perché anche Dove è stata superficiale?

La Dove, come detto, non ha mai pensato di proporre un messaggio razzista.
Ma probabilmente ha sbagliato in due momenti.

La riduzione di quel video e la presentazione dei singoli fotogrammi non è stata sicuramente discussa a sufficienza internamente. L’ombra del razzismo, nasce nella semplificazione del messaggio originale.

Ma anche dando per buona questa fase, la Dove ha subito rimosso il video, chiedendo scusa a chi si fosse sentito offeso a causa della campagna. Senza dare ulteriore contesto alle scuse.

Anche la casa madre ha dunque contribuito ad alimentare questo clima di tensione, perché non è riuscita a comunicare con destrezza e chiarezza quale fosse il vero messaggio dietro quella pubblicità.

Il chiarimento invece è arrivato proprio dalla modella Lola:

“Se da un lato sono d’accordo con la risposta di Dove che chiede inequivocabilmente scusa per qualunque offesa arrecata, Dove stessa avrebbe potuto anche difendere la sua visione creativa, la scelta di includere me, una donna nera, come volto della sua campagna. Non sono soltanto una vittima silenziosa di una campagna di bellezza male interpretata. Sono forte, sono bellissima e non sarò cancellata”.

In conclusione

La storia della pubblicità Dove, sembra la classica storia dove tutti hanno la propria dose di colpa.

Da chi non è stato in grado di spiegarsi bene (la Dove), a chi ha dato la notizia in maniera parziale (molti quotidiani), a chi ha cavalcato l’onda per prendere qualche clic, a chi l’ha ricondivisa sui social indignandosi senza verificare le informazioni.

Una buona occasione per una riflessione sulla comunicazione in rete partendo dalla comunicazione aziendale sino ad arrivare a noi, “i peer”, nelle vesti di divulgatori di informazioni in rete.

 

Autore: Antonio Parlato

Pedigree da ingegnere, propone variazioni sul tema di web writing, copywriting, content marketing, dissertazioni tecnologiche e tecnoillogiche.